Commento
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La storia della nascita, non ancora conclusa, di Francesco Ugo, porta a fare qualche considerazione sullo svolgimento, le responsabilità e il modo di affrontare problematiche mediche complesse. La nascita di un bambino prematuro grave come Francesco Ugo getta i genitori in un vortice di preoccupazioni, insicurezze, sensi di colpa e angosce che mettono a repentaglio e cambiano lo stesso modo di vedere, di percepire, la maternità/paternità. Cambia il modo di pensare la gravidanza. Qualche minuto prima della nascita si parla ancora di feto e pensi a un essere informe; non ancora un essere umano. Invece, con sgomento, ti accorgi che è un essere umano in tutto e per tutto. Più bello e più elegante di qualsiasi cosa tu abbia visto finora. Chi non ha mai visto un prematuro grave non lo può sapere e non lo può capire. Le sue mani sono miniature di quelle di un pianista. Non sono le solite mani paffutelle dei neonati; sono affusolate e si muovono con una grazia sublime. Ti rendi conto che la vita di un essere non comincia solo alla nascita, ma è sempre presente dal concepimento in poi. La dignità di essere umano di un bambino che nasce di 5 mesi e mezzo è uguale se non superiore a quella di un bambino che nasce a termine perche’ oltre ad essere indifeso soffre! Le tue convinzioni sull’aborto vacillano per poi mutare completamente. Il piccolo prematuro di 3 o 4 mesi da una lezione che non si dimenticherà mai; ti regala un lungo periodo della sua più segreta intimità per insegnarti e farti capire che molte tue idee sono sbagliate e paga lottando sotto i tuoi occhi.
Certe cose, è noto, capitano solo agli altri e si è completamente impreparati ad affrontarle. Soprattutto lo scontro- piu’ che incontro- con “l’alta medicina” dove concetti come accanimento terapeutico, rianimazione, lesione cerebrale, e disabilità sono all’ordine del giorno e fanno parte per lunghi periodi, se non per la vita del quotidiano. I primi giorni di vita di Francesco Ugo sono stati vissuti come un sogno o un incubo ad occhi aperti.
Più giorni sono stati necessari per prendere le misure alla situazione e rendersi conto che quel piccolo essere nell’incubatrice era nostro figlio. Per capire che aveva bisogno di una difesa d’ufficio. Abbiamo capito che nell’incubatrice, aggredito da luci, suoni e manipolazioni invasive del suo corpicino c’era un essere che aspettava solo di avere dei genitori. Due persone che ne prendessero cura e si mettessero a fargli da cani da guardia. È sconvolgente quando per la prima volta i suoi occhi si aprono e ti guardano. Succede con il bambino pieno di tubi che sospetti siano fonte di grande dolore. Quello “sguardo” lo si interpreta come un richiesta d’aiuto e ti dice inequivocabilmente: papà, mamma, cosa ci faccio qui? Ed è un colpo al cuore!
Alle cure intense neonatologiche tutto funziona come in un centro spaziale, con molti macchinari e tanti schermi. Il piccolo si muove al rallentatore. Il monitor disegna le linee del battito cardiaco e del respiro. Si sente il pompare delle macchine per respirare. Altri monitor attaccati ad altri bambini suonano e istintivamente lo sguardo corre a vedere cosa indicano. I numeri, dopo qualche giorno, hanno un significato. Capisci! Un bambino, un po’ più in là ogni tanto soffoca; l’infermiera arriva e senti il gorgoglio di un aspiratore polmonare che libera i bronchi del piccolo. Guardi velocemente, per pudore e l’angoscia cresce. Lui, tuo figlio, è lontano, chiuso in una scatola di plastica trasparente. Fa parte di una grande macchina, per metà umana e per l’altra metà meccanica. I primi giorni hai la sensazione che anche una leggerissima carezza sulla testa del piccolo rischia di incepparla. Le infermiere, come automi, con voci piatte e senza emozioni, parlano ai piccoli mentre li manipolano. Si vede che sono molto abituate e lo fanno con nonchalance. Pensi a quanti bambini così hanno visto e a quanti sono morti nelle loro mani. Ti vengono in mente dei film. Le incubatrici sembrano bacelli con extraterrestri in formazione. Invece è tuo figlio e lui non aveva mai chiesto di finire lì. Non lo meritava. E allora perché? Rimani senza risposta.
Devi convivere con le montagne russe delle patologie che si susseguono. Un giorno sei pieno di speranza e l’indomani non vedi vie di uscita. A volte ti chiedi se non è meglio che il bambino se ne vada e scacci velocemente il pensiero con vergogna. “Che genitore sarò mai?” Pensi a tutto, al funerale, alla tomba che gli farai. Poi lui ti guarda e ti si stringe il cuore. Cominci a sentire che lui è più importante di te. Se fosse possibile scambieresti la tua vita contro la garanzia che lui ce la faccia.
Poco a poco si fa strada la consapevolezza che forse non stanno facendo il massimo per tirarlo fuori di lì. Vedi i medici e le infermiere che seguono procedure prestabilite. Applicano un manuale. Curano ma non c’è amore. Pensavi che un bambino così piccolo e indifeso provocasse tenerezza e un approccio dolce e personalizzato da parte del personale curante; invece no, sono abituati all’orrore e tuo figlio è uno dei tanti. È una probabilità statistica. Comunicano con te con frasi fatte che gli assistenti medici e le infermiere imparano a memoria. Siamo alle cure intense e la morte è una compagna di tutti i giorni. Si sono blindati: probabilmente per autodifesa. Prenderne coscienza è difficile e rende insopportabile lasciarlo lì ma non hai scelta.
Più il tempo passa e impari, ti informi, e più il conflitto con la medicina si fa evidente. Pensavi i medici più potenti, più preparati. Invece, con somma sorpresa sono dei lavoranti anche loro. Non c’è scienza in quello che fanno. Applicano e non rischiano. Se sbagliano continuano, non possono ammetterlo. I genitori li denuncerebbero e cambiare sarebbe un’ammissione di colpa. Tutto “normale”, come dappertutto, con la sola differenza che chi ci rimette è l’essere più delicato e indifeso della terra: il prematuro!
Le infermiere subiscono. Vanno avanti a testa bassa. Un’infermiera che si ribella è finita; non troverà mai più lavoro. Gli assistenti dipendono dal primario per la loro carriera e alla più piccola domanda che li responsabilizzano vanno in panico. Il primario passa alla mattina e il resto del tempo cura le relazioni pubbliche. Va a tutti i congressi e cerca motivi di ricerca per pubblicare. Ricerche spesso basate su mere statistiche. Hanno tutti la sindrome della pubblicazione. Tot articoli su medline e nel campo medico sei qualcuno.
È quando capisci che più di quel tanto non si può fare con la medicina, che non proveranno niente di più di quello che c’è scritto nei loro manuali, che il tuo ruolo di genitore si rivela. Non cambia molto alle cure che vengono date al bambino ma cambi dentro e cambi atteggiamento. Ti accorgi dell’immane responsabilità che ti sei preso. Essere padre o madre di un bambino che ha già dovuto lottare per respirare, per vivere e che ce la mette tutta per farcela ti riempie di orgoglio. Hai un figlio che forza il tuo rispetto come essere umano e ti senti di metterti al suo servizio. Sai che tutti i programmi che avevi fatto per il figlio tanto desiderato sono svaniti e arriva come un’illuminazione: vuoi bene al figlio che hai e non a quello che volevi. Tuo figlio ha veramente bisogno di te per vivere e incominci a ringhiare.
È strano, ma sembra sia comune ai genitori di bambini con gravissimi problemi di salute e particolarmente ai genitori di prematuri considerarsi “più genitori” degli altri. Per i sensi di colpa che inevitabilmente vengono e per il dolore e le preoccupazioni che la situazione porta. Nei pochissimi momenti di serenità, puoi pensare che un bambino sano, nato a termine, sia una cosa così banale da non meritare tanta attenzione e che solo un prematuro grave dia la vera dimensione della paternità/maternità e sorridi pensando che sei “quasi” fortunato.
Mauro Locatelli